
Dopo aver parlato di come ritrovare la propria luce interiore, (l'articolo lo trovi qui) il passo successivo è imparare a restare dentro quella luce, a farne la propria casa quotidiana.
La luce è il risveglio. La presenza è il luogo in cui quella luce può vivere, respirare, crescere.
Quando trovi un momento di calma — magari dopo un periodo difficile — pensi di essere arrivato. In realtà, è solo l’inizio del viaggio: il momento in cui impari a restare, anche quando la mente corre o le emozioni cambiano.
Restare significa non farti trascinare dal flusso dei pensieri, ma accorgerti che stai pensando; non scappare dalle emozioni, ma permettere loro di attraversarti.
È la capacità di rimanere connesso a te stesso anche quando dentro di te si muovono paura, ansia o malinconia — senza perdere il contatto con il respiro, con il corpo, con ciò che stai vivendo adesso.
Restare non vuol dire bloccare ciò che senti, ma stare accanto a ciò che accade, con gentilezza e curiosità, finché non smette di avere potere su di te. Restare nel momento in cui la vita accade non è facile. La mente tende a spostarti nel passato, per capire o correggere, o nel futuro, per controllare. Ma la vita non accade mai “altrove”: è sempre qui, nel respiro che fai adesso, nel suono che senti, in ciò che provi in questo istante.
Essere presenti non significa svuotarsi da pensieri o emozioni, ma accorgersi di loro mentre accadono, senza esserne travolti. È un modo di stare nel corpo, di sentire ciò che c’è senza giudicarlo o volerlo cambiare.
Quando riesci a sentire la tensione senza volerla scacciare, o la tristezza senza volerla nascondere, cominci a toccare qualcosa di più vero e stabile dentro di te.
Dal punto di vista psicologico, la presenza è integrazione: le parti di te che prima si ignoravano o si scontravano iniziano a comunicare. Corpo, mente e respiro tornano a muoversi insieme. Non serve più correre per diventare qualcun altro: basta esserci pienamente.
In quello spazio semplice ma profondo, nasce una calma diversa — non quella del silenzio esterno, ma quella di chi, finalmente, si sente a casa dentro di sé.

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Quando diciamo che la mente scappa, intendiamo che si allontana dal momento presente.
È un meccanismo automatico, spesso inconsapevole, che nasce dal bisogno di proteggerci da ciò che non possiamo controllare.
La mente fugge quando qualcosa ci fa paura, ci mette in dubbio o ci espone alla vulnerabilità. Scappa nel passato, cercando spiegazioni o colpe:
“Cosa ho sbagliato?”
“Perché è andata così?”
Oppure scappa nel futuro, immaginando ogni possibile scenario per sentirsi preparata:
“E se poi succede…?”
“Come andrà a finire?”
A volte scappa anche dal presente, riempiendo ogni spazio di silenzio con distrazioni, attività, rumore. È la fuga più subdola, perché sembra “produttiva”, ma in realtà ci allontana da noi stessi.
Questa fuga mentale crea un’illusione di controllo.
Crediamo che pensare di più, pianificare o analizzare ci proteggerà dal dolore o dall’incertezza. Ma accade l’opposto: più la mente scappa, più ci sentiamo vuoti, ansiosi, scollegati dal corpo e dalle emozioni.
Restare, invece, significa interrompere la corsa. Vuol dire riconoscere il pensiero mentre nasce, sentire il corpo mentre reagisce, osservare l’emozione che sale e scende.
Non per bloccarla, ma per esserci dentro, senza fuggire. Solo in quel momento, quando la mente smette di scappare, puoi davvero incontrarti — e vivere.
Viviamo in una cultura che esalta la velocità, la performance e il controllo. Ci insegnano fin da piccoli che pianificare, anticipare e “gestire tutto” sia la chiave per una vita serena. Ma in questa ricerca di sicurezza, la mente finisce spesso per diventare il nostro rifugio e la nostra prigione insieme.
Il pensiero è un rifugio perché ci dà l’illusione di ordine. Analizzando, prevedendo e organizzando, sentiamo di avere un margine di potere sul caos della vita. Ma quando la mente non si ferma mai, quel rifugio si trasforma in una cella che ci separa dal presente. Rimuginiamo sul passato per cercare spiegazioni, oppure ci proiettiamo nel futuro per prevenire i rischi — e così non viviamo davvero nessuno dei due momenti.
In realtà, il pensiero non può proteggerci dal dolore o dall’incertezza. Può solo raccontarci storie su di essi. E più cerchiamo di controllare la vita con la mente, più ne restiamo intrappolati. Il presente, invece, è semplice ma reale: è un respiro, un gesto, una sensazione. È tutto ciò che non può essere rimandato o manipolato.
Dal punto di vista psicologico, la presenza è l’antidoto all’illusione del controllo. Non perché elimini le difficoltà, ma perché ci restituisce il potere dell’azione consapevole. Quando sei presente, non reagisci in modo automatico: scegli.
Non cerchi di cambiare ciò che non puoi cambiare, ma impari a muoverti con ciò che c’è.
Come ricorda Jon Kabat-Zinn: “Non puoi fermare le onde, ma puoi imparare a surfare.”
Non puoi bloccare i pensieri o gli eventi, ma puoi imparare a stare in equilibrio dentro di essi, lasciandoli passare senza perderti. È lì che la mente smette di essere prigione e torna a essere uno strumento: utile, ma non più il tuo padrone.

Molti immaginano la presenza come una condizione di quiete assoluta: sedersi in silenzio, chiudere gli occhi, svuotare la mente. In realtà, la presenza non è assenza di movimento, ma consapevolezza dentro il movimento.
Non si tratta di fermarsi, ma di esserci mentre accade ciò che accade.
Puoi essere presente mentre cucini, mentre cammini per strada, mentre parli con qualcuno o rispondi a una mail. La differenza non sta nell’azione, ma nello stato interno con cui la vivi.
Quando sei distratto, agisci in automatico: il corpo fa, la mente corre altrove. Quando sei presente, invece, il gesto più semplice diventa un’esperienza piena. Tagliare una verdura, ascoltare una voce, inspirare l’aria fresca: tutto acquista profondità perché tu ci sei dentro, non solo in superficie.
La presenza è movimento consapevole perché la vita stessa è movimento: flusso, trasformazione continua. Cercare di fermarla per sentirsi in pace è come voler trattenere il respiro per paura che finisca.
La vera calma nasce non quando smetti di muoverti, ma quando ti muovi restando radicato a te stesso.
Essere presenti significa vivere l’azione come parte della tua esperienza interiore: un dialogo costante tra ciò che fai e ciò che senti. In questo equilibrio, il quotidiano si trasforma in consapevolezza viva.
Nella psicologia umanistica, il concetto di qui e ora rappresenta il cuore dell’esperienza umana. Non è un’idea astratta, ma una porta di accesso alla consapevolezza.
La psicoterapia della Gestalt, per esempio, ci invita a osservare ciò che accade dentro e fuori di noi nel momento presente, perché è solo lì che possiamo davvero comprendere chi siamo. Non nel passato, che è già storia, né nel futuro, che è solo immaginazione.
Il qui e ora diventa così un laboratorio vivo: ogni emozione, tensione, parola o silenzio contiene informazioni preziose su ciò che ci muove interiormente.
Allo stesso modo, l’Analisi Transazionale parla dello Stato dell’Io Adulto come della parte di noi capace di restare nel presente con lucidità, distinguendo ciò che appartiene al “qui e ora” da ciò che proviene dal “lì e allora” del nostro passato.
Quando reagiamo a una situazione con un’intensità sproporzionata, spesso non stiamo rispondendo all’oggi, ma a un ricordo emotivo antico. L’Adulto, invece, osserva, valuta e sceglie consapevolmente, interrompendo i vecchi automatismi.
Essere presenti, da questa prospettiva, significa riconoscere il flusso del tempo senza esserne travolti. Non si tratta di fermarlo, ma di abitare ogni istante con attenzione e verità.
Nel qui e ora possiamo ascoltare il corpo, dare nome alle emozioni, accorgerci dei pensieri che ci attraversano. È un processo di integrazione tra esperienza, consapevolezza e azione.
Quando impari a vivere così, la vita non diventa più una sequenza di cose da fare o da capire, ma una serie di momenti da vivere pienamente. Ogni gesto, parola o incontro può diventare occasione di crescita.
Il qui e ora non è solo un tempo, ma una qualità della presenza: quella di chi è sveglio, radicato e libero.

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Il corpo e il respiro sono le porte più dirette per tornare al presente. Quando la mente corre, il corpo rimane il nostro punto di ancoraggio più immediato: non può viaggiare nel tempo, ma può rispondere ai viaggi della mente.
Infatti, quando ricordiamo qualcosa di doloroso o spiacevole, il corpo rivive quella scena. Il cuore accelera, i muscoli si tendono, il respiro cambia. Il sistema nervoso non distingue tra un evento reale e uno ricordato: reagisce come se stesse accadendo ora.
In questo senso, il corpo non è sempre “nel presente”, ma può riattivare le memorie emotive conservate nel tempo.
Ed è proprio qui che nasce la forza della presenza. Non serve reprimere ciò che il corpo sente, né cercare di cancellare i ricordi. Serve osservare ciò che accade mentre accade: notare una tensione, un respiro corto, un nodo allo stomaco, e riconoscere che in questo momento stai rivivendo, non vivendo.
Questa consapevolezza ti riporta subito nel qui e ora.
Il respiro diventa allora un ponte: ti permette di restare accanto a ciò che senti, senza perderti.
Non devi controllarlo, basta ascoltarlo. Ogni volta che torni al respiro, interrompi il flusso dei pensieri e riapri lo spazio del presente.
È lì, tra un inspiro e un espiro, che ritrovi te stesso: non nel ricordo, non nell’anticipazione, ma nell’unico luogo reale in cui la vita accade — adesso.
Il corpo parla continuamente, anche quando la mente non ascolta. È una bussola psicologica ( link Il corpo come bussola: cosa ci dice quando non lo ascoltiamo) che ci indica, con precisione silenziosa, dove siamo davvero.
Quando perdiamo la presenza, il corpo è il primo a saperlo: lo mostra attraverso segnali sottili ma inequivocabili. Le spalle si irrigidiscono, il respiro si accorcia, la mascella si stringe, lo sguardo si fa sfuggente.
Ogni tensione è un messaggio che dice: “Sei andato via da qui.”
Il corpo si tende quando la mente fugge, perché segue l’emozione che la mente ha evocato. Se pensi a qualcosa che ti spaventa, i muscoli si preparano a difendersi; se rivivi una ferita del passato, il petto si chiude per proteggersi.
Ma ciò che spesso dimentichiamo è che il corpo non è il problema: è la via d’accesso alla soluzione. Attraverso di lui possiamo riconnetterci al momento presente, tornare al punto in cui la vita sta accadendo.
Il ritorno al corpo non richiede sforzo o tecnica. Richiede solo attenzione gentile. Notare la postura, la temperatura della pelle, il contatto dei piedi con il suolo. Sentire l’aria che entra e che esce. Anche solo per un respiro.
Non si tratta di “fare” qualcosa, ma di lasciare che l’esperienza si mostri così com’è. Ogni volta che torni a sentire il corpo, interrompi la spirale mentale e crei uno spazio di realtà. Inspira. Espira.
Senti la terra sotto di te. In quell’istante, la mente smette di rincorrere il passato o il futuro e tu torni a casa, nel corpo, nel presente.
Da lì, tutto può ricominciare: la calma, la chiarezza, il contatto autentico con ciò che vivi.
Il corpo non mente mai: basta imparare ad ascoltarlo per ritrovare la direzione.
Approfondimento: American Psychological Association – Mindfulness and Well-Being

La mente reagisce per abitudine: corre, giudica, interpreta. È programmata per rispondere rapidamente, non per osservare. La consapevolezza, invece, fa qualcosa di completamente diverso: si ferma, guarda, riconosce.
Allenare la presenza significa coltivare quello spazio interno in cui puoi vedere nascere un pensiero senza identificarti con esso, scegliere se seguirlo o lasciarlo andare. È come passare dal vivere in un fiume in piena all’osservare la corrente dalla riva.
In psicologia, una pratica semplice ma potente per sviluppare questa capacità è il metodo in tre passaggi:
Notare: accorgersi di ciò che accade (“sto pensando”, “sto provando ansia”). Il solo atto di notare interrompe l’automatismo.
Nominare: dare un nome all’esperienza, come se la portassi alla luce (“sto giudicando”, “mi sto preoccupando”). Il linguaggio calma il sistema nervoso e crea distanza dal contenuto mentale.
Lasciare andare: tornare al respiro o al corpo, lasciando che il pensiero passi, come una nuvola nel cielo.
Questa micro-pausa di consapevolezza, se ripetuta più volte al giorno, cambia il modo in cui reagisci. Ti restituisce la possibilità di scegliere invece di reagire d’impulso. E, con il tempo, trasforma la mente in un luogo più calmo, spazioso e libero.

Le relazioni sono uno degli specchi più chiari della nostra presenza. Quando siamo davvero connessi, ascoltiamo con attenzione, sentiamo il tono, lo sguardo, il ritmo dell’altro. Ma quando la mente corre — giudica, anticipa, interpreta — non siamo più lì, anche se fisicamente presenti. In quei momenti non vediamo l’altro: vediamo la nostra proiezione, i nostri timori, le nostre aspettative.
Essere presenti in una relazione significa incontrare l’altro nel suo spazio reale, non in quello che la mente costruisce. È restare nel contatto anche quando emergono emozioni scomode: rabbia, silenzi, fragilità. Non reagire subito, ma respirare, ascoltare, lasciare che le parole trovino il loro tempo.
In psicologia, questo è il luogo dell’incontro autentico: dove il mio “io” e il tuo “tu” possono coesistere senza confondersi.
Quando resti presente, l’altro diventa un ponte verso te stesso. Ti rimanda ciò che senti, ti aiuta a riconoscere parti che spesso eviti.
La presenza nelle relazioni non è fatta di grandi gesti, ma di piccole attenzioni: uno sguardo che resta, un ascolto che non interrompe, una parola detta con sincerità.
In quell’istante, non c’è più difesa o ruolo da mantenere — solo due esseri umani che, per un momento, sono davvero lì.
L’ascolto è forse la più concreta forma di presenza che possiamo offrire a qualcuno.
Non è solo un atto di attenzione, ma un modo di esserci: corpo, mente ed emozioni orientati verso l’altro, senza giudizio né fretta. Le relazioni, infatti, sono il banco di prova più sincero della nostra consapevolezza.
Possiamo meditare, respirare, leggere testi spirituali — ma se, mentre qualcuno ci parla, stiamo già pensando a cosa rispondere, non siamo davvero lì.
Essere presenti in una relazione non significa capire perfettamente l’altro o dire sempre la cosa giusta. Significa esserci interamente, con curiosità, apertura e disponibilità a lasciarsi toccare da ciò che l’altro porta.
Nell’Analisi Transazionale, questo tipo di contatto si chiama incontro Adulto-Adulto: due persone che comunicano nel presente, senza ruoli, maschere o copioni ripetuti. È un dialogo tra due esseri umani che riconoscono reciprocamente la propria autonomia e verità.
Quando ascolti davvero, sospendi per un attimo la necessità di avere ragione, di dare consigli, di interpretare. Ti fai spazio dentro, lasciando che le parole dell’altro risuonino prima di rispondere. In quello spazio silenzioso nasce l’empatia autentica: non quella costruita, ma quella che emerge dal contatto reale.
L’ascolto consapevole ha un effetto trasformativo: la tua presenza diventa contagiosa. Quando ci sei davvero, l’altro lo percepisce — si calma, si apre, smette di difendersi.
È come se la tua attenzione gli dicesse: “Puoi esserci anche tu, così come sei.”
In questo scambio semplice ma profondo, la relazione smette di essere un campo di reazioni e diventa un luogo di incontro.
Ascoltare, allora, non è un gesto passivo, ma un atto di amore consapevole: una forma di silenziosa presenza che cura, unisce e fa spazio alla verità di entrambi.

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Viviamo in un tempo in cui l’attenzione è costantemente frammentata. Le notifiche, le urgenze, i paragoni continui ci tengono in uno stato di allerta permanente, come se dovessimo sempre rispondere a qualcosa o dimostrare di valere.
Il multitasking ci dà l’illusione di essere più efficienti, ma in realtà ci separa da noi stessi: il corpo è in un luogo, la mente in un altro, e il cuore rimane sospeso nel mezzo.
Sotto questa corsa incessante si nasconde spesso la paura del vuoto. Non temiamo davvero la mancanza di stimoli, ma ciò che quel silenzio potrebbe rivelare: emozioni irrisolte, desideri dimenticati, pensieri che abbiamo evitato per troppo tempo. Per questo tendiamo a riempire ogni momento con qualcosa — lavoro, schermi, rumore — pur di non restare soli con noi stessi.
Eppure, è proprio nel vuoto che nasce la chiarezza. È lì che la mente si placa e la creatività trova spazio per emergere.
Come scrive lo psichiatra e filosofo Viktor Frankl nel suo libro Man’s Search for Meaning (1946):
“Tra stimolo e risposta c’è uno spazio. In quello spazio risiede la nostra libertà e il nostro potere di scegliere la risposta. Nella nostra risposta risiede la nostra crescita e la nostra felicità.”
Coltivare la presenza significa proteggere quello spazio, imparando a restarci dentro anche quando spaventa. È lì che nasce la vera libertà interiore.

Essere presenti non è un momento magico di illuminazione, ma un allenamento costante della consapevolezza. È una pratica che si costruisce nel quotidiano, attraverso piccoli gesti che ci riportano al corpo, al respiro e all’esperienza diretta del vivere.
La presenza non nasce dallo sforzo, ma dalla cura: dal desiderio di esserci, un po’ di più, ogni giorno.
Camminare per dieci minuti senza telefono, solo respirando, è un atto semplice ma potente. Ti permette di ricordare che la vita non accade nello schermo, ma nell’aria che senti, nel rumore dei passi, nella luce che cambia.
Fermarti un istante prima di rispondere a un messaggio o a una domanda crea uno spazio di libertà tra stimolo e reazione: un battito di presenza che ti restituisce la possibilità di scegliere, invece di reagire automaticamente.
E scrivere ogni sera tre cose che hai sentito davvero — un odore, un’emozione, un contatto — ti aiuta a radicare la giornata nella realtà, non solo nei pensieri.
La presenza non chiede perfezione. Chiede attenzione gentile, pazienza, continuità.
È come un muscolo che si rinforza nel tempo: più lo coltivi, più diventa naturale.
Alla fine, non serve fare di più — serve solo esserci di più.

Quando impari a stare nel presente, non è la vita a diventare più semplice o prevedibile: sei tu che cambi nel modo di attraversarla. Gli eventi restano gli stessi — imprevisti, successi, perdite, attese — ma cambia il tuo modo di reagire.
La presenza trasforma la rigidità in fluidità, l’impulso in scelta, la paura in curiosità. Diventi meno ostaggio di ciò che accade e più partecipe del modo in cui lo vivi.
Essere presenti non significa accettare tutto passivamente, ma riconoscere ciò che c’è senza negarlo o forzarlo. È dire “sì” alla realtà, anche quando è scomoda, perché solo partendo da ciò che è vero puoi trasformarlo.
Quel “sì” non è resa, è responsabilità: la capacità di rispondere in modo consapevole invece di reagire in modo automatico.
Quando vivi così, passi dal sopravvivere al vivere. Non insegui più costantemente un altrove, ma ti accorgi che la vita accade proprio qui, dentro ogni gesto e respiro.
La presenza ti restituisce a te stesso: ti fa sentire intero anche nel mezzo dell’incertezza.
Non promette una vita senza dolore, ma ti offre qualcosa di più prezioso — la possibilità di attraversarlo con calma, verità e cuore aperto.
Trova un momento della giornata in cui puoi fermarti, anche solo per 60 secondi e segui questi brevi steps:
Chiudi gli occhi.
Senti il contatto dei piedi con la terra.
Ascolta il respiro senza cercare di modificarlo
Nota un suono, un odore, una sensazione corporea.
Ripeti mentalmente: “In questo momento, io ci sono.”
Fallo più volte al giorno. Ogni volta che lo fai, non stai solo respirando: stai tornando a te stesso.

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Sabrina Bush
Psicologa e Psicoterapeuta
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